Image: THX 1138 (2008)
da "Il Manifesto" del 12 Agosto 2005 (http://www.ilmanifesto.it/g8/dopogenova/42fcd0a067c25.html):
STATI UNITI
E allora «burn, baby, burn»
Quaranta
anni fa la rivolta di Watts, suburbio nero di Los Angeles, la più
violenta mai vista, segnava uno spartiacque nelle relazioni razziali e
nella coscienza dei neri americani All’inizio fu la reazione spontanea
alla brutalità dei poliziotti bianchi. Poi, dopo i sei giorni di
rivolta (34 morti, oltre mille feriti, 40 milioni di dollari di danni)
le cose cambiano e diventano «politiche». Vengono coinvolte e assumono
la leadership le vecchie gang nere di L.A., con l’aiuto delle radio
locali, mentre nasce il gruppo del Black Panther. Il fallimento di
Martin Luther King e le manovre del Fbi
ANDREA ROCCO,
Quaranta
anni fa, la sera dell’11 agosto 1965 l’agente, bianco, della California
Highway Patrol (i non ancora famosi e televisivi CHIPs) Lee Minikus
ferma il ventunenne nero Marquette Frye all’angolo di Avalon Boulevard
e 116ma Strada, a Watts, il ghetto nero nel sud di Los Angeles. Il
giovane è sospettato di guida in stato di ebbrezza. Fermare un ragazzo
nero in auto è routine per la polizia di Los Angeles, ma questa volta
Frye non si inginocchia sull’asfalto come da lui ci si aspetta.
Resiste. In suo aiuto arriva il fratello, poi la madre. I tre vengono
arrestati e presi a manganellate. Intorno ai Frye e all’agente si
raduna una folla di persone. Appena la polizia se ne va con gli
arrestati inizia la rivolta più sanguinosa tra quelle dei ghetti
americani di quegli anni. Sei giorni di disordini, 34 morti di cui 25
neri, 1000 feriti, 40 milioni di dollari di danni. Una rivolta che sarà
contenuta dalla polizia nel quartiere di Watts, un’area geografica
relativamente limitata, caratterizzata da casette monopiano, ma anche
dalla presenza di blocchi di case popolari costruite durante la guerra
per alloggiare una popolazione nera in espansione (il numero dei neri a
Los Angeles raddoppia tra il 1940 e il 1944 e nel 1965 è nove volte più
grande): Hacienda Village, Imperial Courts, Jordan Downs, Nickerson
Gardens sono i nomi dei progetti di edilizia pubblica che saranno i
maggiori focolai della rivolta. All’esterno il quartiere è famoso per
quello straordinario monumento di arte «naive» che sono le Watts
Towers, create dall’immigrato italiano Simon Rodia.
Le minoranze mediatizzate
La
rivolta di Watts, ben più di quelle che l’hanno preceduta, è una
rivolta giovanile, scandita dalle radio nere, unica espressione
mediatica aperta allora alle minoranze. Magnificent Montague, allora
disc-jockey della stazione Kgfj ha raccontato in questi giorni al Los
Angeles Times il senso di quei giorni e del suo rapporto con i giovani
ascoltatori che fecero della frase preferita del dj, «Burn, baby,
burn», la colonna sonora delle rivolta. «Era la frase che gridavo da
due anni, a Chicago, a New York, in tutte le radio dove ho lavorato
e quando un pezzo di Ray Charles, Wilson Pickett, Sam Cooke o Stevie
Wonder catturava il mio entusiasmo. Prima i padroni della radio, dei
bianchi, mi chiedono di smettere. Mi rifiuto: lo slogan appartiene ai
miei ascoltatori. Poi venerdì 13 agosto, il giorno più violento della
rivolta, mi chiama il Sindaco Sam Yorty e mi proibisce di usare quello
slogan, perché tende ad incitare i rivoltosi, così dice. Gli rispondo
che quello che li incita sono i loro problemi ed è ciò che voi bianchi
avete fatto per anni e di non perder tempo con me. Nessuno dava voce a
quei ragazzi che telefonavano alla mia radio, non la Naacp
(l’organizzazione dei diritti civili), non i predicatori neri. Le
chiese nere gli dicevano che bruciare era sbagliato. Io no. Sapevo
quello che provavano. Si sentivano deboli. Sapevo che ribellarsi li
faceva sentire forti per la prima volta in vita loro, rivolta contro
debolezza. Forse non sapevano quello che volevano. Forse sapevano solo
quello che non volevano. Ma era un inizio».
Ma non sono solo le
radio a dirigere i «riots». Se nelle commemorazioni dei 40 anni molti
parlano ancora della spontaneità della rivolta, del suo essere non
strutturata, senza direzione e senza programma, il ruolo delle gang
nere angelene non è da sottovalutare. Nate già negli anni `40 come
risposta a gang razziste bianche, come quella degli Spook Hunters,
negli anni `50 e `60 si caratterizzano per le loro faide interne. Le
gangs sono grossolanamente divise geograficamente tra «eastside» e
«westside» i due lati del ghetto divisi dalla nuova autostrada urbana,
la Imperial Freeway. Sono bande con il culto dell’automobile che si
affrontano in duelli a mani nude, o con bastoni e coltelli, anche se
qualche volta ci scappa il morto. Le gang più importanti sono i
Gladiators (Westside) e gli Slausons (Eastside).
Sono rivali
feroci fino al 1965. Ma lo spirito degli anni `60, di Berkeley, e dei
movimenti anti-sistema arriva anche qui. Poco prima della rivolta è in
atto un movimento di tregua tra le gang, ispirato e guidato dai primi
militanti politici neri, una nuova leadership che rompe con quella
moderata delle chiese e delle organizzazioni per i diritti civili e che
nella rivolta troverà nuova linfa.
Sono le gangs a dirigere, di
fatto, la rivolta. E dopo Watts, uno dei leader degli Slausons,
Alprentice «Bunchy» Carter diventerà il responsabile della sezione di
Los Angeles del neonato Black Panther Party, a cui aderiscono decine di
giovani che hanno preso parte alla rivolta. Per cinque anni le attività
e gli scontri tra le gang spariscono, mentre vengono create
organizzazioni ed eventi che per la prima volta fanno di Watts un posto
dove vale la pena vivere: il Watts Arts Festival, il Watts Writers
Workshop diventano per un breve, glorioso periodo manifestazioni di
assoluto livello. Ma nascono anche il gruppo Community Action Patrol,
per il monitoraggio degli abusi della polizia, Us Organization, il
gruppo nazionalista nero di Ron «Maulana» Karenga. Un fiorire di
attività e di organizzazioni che si spegnerà all’inizio degli anni `70,
distrutto dalle attività del Fbi attraverso il famigerato organo
anti-insurrezionale Cointelpro, e dai contrasti tra Panthers e Us che
si concluderanno con l’assassinio di Carter per mano dei nazionalisti
neri.
Ma torniamo ai giorni di Watts. La reazione della comunità
bianca è di terrore, anche se la polizia riesce a contenere la rivolta,
ci si rende conto che è stata solo quella «thin blue line» quella
sottile linea blu, rappresentata dalle uniformi dei poliziotti del Los
Angeles Police Department a evitare che la rivolta si allargasse a
tutta la città. Quanto alla comunità nera, due giorni dopo la fine
della rivolta, arriva in città Martin Luther King. Il sindaco di L.A.
rifiuta di fargli visitare le carceri dove ci sono i rivoltosi
arrestati, dicendo che King avrebbe incitato un’altra rivolta. King va
allora a Watts, in un’atmosfera tesissima. Centinaia di persone lo
circondano e lo fischiano. King aveva chiesto l’intervento della
polizia per fermare la rivolta, ma ora i suoi fratelli neri gliene
chiedono conto. «Che altro deve fare la gente, senza lavoro, senza
prospettive?» gli chiedono. King parla, chiede un forte impegno del
governo, fondi contro la povertà e per le scuole. «Dobbiamo unire le
nostre mani» dice ecumenicamente il Premio Nobel per la Pace. «E
appiccare il fuoco!», urla qualcuno dalla folla. «Ci saranno giorni
migliori!» risponde King. «Quando?» gli chiedono e lo slogan «Burn,
baby, burn» diventa di tutta la folla. King interrompe la visita a
Watts.
Il dopo-rivolta inizia con le dichiarazioni del
Presidente Lyndon Johnson, che sui diritti civili si gioca gran parte
della sua credibilità e che vede in Watts un pericolo mortale: «Un
rivoltoso con una molotov in mano – dichiara – combatte una battaglia
per i diritti civili, tanto quanto lo fa uno del Ku Klux Klan con un
lenzuolo addosso e una maschera sulla faccia. Sono tutti e due quello
che li definisce la legge: fuorilegge, distruttori dei diritti e delle
libertà costituzionali e in ultima analisi, distruttori dell’America
libera».
Sul versante opposto, intellettuali come il
situazionista Guy Debord vedono in Watts «una rivolta contro lo
spettacolo che – anche limitata a un solo quartiere come Watts –
rimette in questione tutto, perché è una protesta contro una vita
disumanizzata, una protesta di individui reali contro la loro
separazione da una comunità che appagherebbe la loro vera natura umana
e sociale e che trascenderebbe lo spettacolo».
Inchiesta sulle cause
Una
Commissione di Inchiesta sulle cause della rivolta, creata dal
governatore della California Pat Brown (il padre di Jerry Brown) e
diretta da John McCone analizza le cause della rivolta: disoccupazione
due o tre volte più alta tra i neri che nella popolazione generale, due
terzi degli studenti neri non finisce la scuola, la polizia, e il suo
capo Parker sono oggetto di odio da parte di tutta la comunità nera. Ci
sono raccomandazioni che verranno seguite come l’apertura dell’impiego
pubblico ai neri, il coinvolgimento della leadership nera nel governo
della città (nel 1973 viene eletto il primo nero sindaco di Los
Angeles, Tom Bradley) l’apertura dei ranghi della polizia alle
minoranze. Ma non basterà. Il 29 aprile 1992, in circostanze e in
condizioni singolarmente simili a quelle della rivolta di Watts, tutta
South Central Los Angeles esplode in 4 giorni di rivolta.
Walter
Mosley, lo scrittore nero di Los Angeles che l’anno scorso ha
pubblicato «Little Scarlet», un giallo ambientato durante la rivolta di
Watts, ha così ricordato i giorni di Watts, da lui vissuti come
ragazzino di 12 anni: «Il risultato più immediato e quasi inconscio
della rivolta è stato che qualcuno ha avuto una sensazione di amara
soddisfazione, altri hanno imparato ad aver paura. La lezione, per neri
e bianchi, è stata insegnata, ma non imparata. La gente in tutto il
mondo, dal Darfur a Cleveland, da Parigi a Giakarta, soffre. Sono
arrabbiati e disillusi, perduti davanti agli schermi tv e ai pulpiti
dominati dai fanatici religiosi. C’è un pensiero da qualche parte nella
loro incoscienza, una parola che attende di essere pronunciata. Questo
è quello che mi ricordo di quella estate calda. Mi ricordo un futuro
che sarà dimenticato prima che sappiamo che è accaduto».
da http://www.magnificentmontague.com/:
When
rioters in Watts, California, began shouting "Burn, Baby! BURN!" in the
turmoil of 1965, they were echoing the most popular cry on
rhythm-and-blues radio: The trademark of Magnificent Montague, the most exciting R&B disc jockey ever to stroll through Soulsville.
In
Los Angeles on KGFJ, and earlier in New York on WWRL, Montague yelled
"Burn!" whenever he was playing a record that moved him. His listeners
followed suit, calling Montague and shouting "Burn!" on the air. The
emotion in that exchange reverberated with as much excitement as the
music of Stevie Wonder, Sam Cooke and Otis Redding. […]
info:
http://www.magnificentmontague.com/
http://en.wikipedia.org/wiki/Magnificent_Montague